LA CRISI OCCUPAZIONALE E I
TAGLI ALLA SANITA’
Durante il consiglio
nazionale straordinario del 7 giugno dell’IPASVI, abbiamo avuto un quadro della
situazione attuale del nostro Sistema Sanitario Nazionale. Uno dei fattori
sconcertanti sottolineati dalla presidentessa Silvestro, è la continua riduzione
del costo del personale (35, 6 miliardi di euro), con un decremento del 1,4%
rispetto al 201, come conseguenza degli interventi di contenimento della spesa
pubblica imposta dalle ultime manovre, prima fra tutte la spending review, la
maxi manovra che ha individuato nell’istruzione e nella sanità, i settori di
maggiore e più drastico intervento.
Ciò per quanto riguarda la
Sanità Pubblica, ma le cose non vanno certo meglio per la Sanità Privata,
anch’essa in piena crisi economica, in quanto finanziata in larghissima
percentuale con soldi provenienti dai rimborsi DRG, quindi dalle Regioni, le
quali, avendo già scarse risorse destinate al finanziamento della Sanità pubblica,
hanno iniziato da tempo a chiudere i rubinetti anche per le fondazioni,
ospedali e qualsivoglia struttura privata, con conseguente crollo delle
assunzioni di personale e peggioramento drammatico delle condizioni di chi è già
impiegato e conseguente peggioramento della qualità dell’assistenza prestata.
Sono sempre più frequenti, inoltre, i casi di strutture, anche valide dal punto
di vista clinico e assistenziale, scoperte in grave deficit di bilancio e quindi, considerate insolventi, con conseguenti,
terribili ripercussioni sul personale del Comparto, con licenziamenti e
decurtazioni di sostanziose “fette” di stipendio.
Secondo l’IPASVI, il tasso
occupazionale è sceso per gli infermieri ad un anno dalla laurea, dal 94% del
2007 all’83% del 2010 con segni oggettivi di un’ulteriore riduzione. Siamo
quindi ad una “stasi occupazionale” che ha indotto alcuni Collegi a sostenere
la necessità della chiusura o sospensione di una parte dei corsi di laurea in
Infermieristica. Oppure, in alternativa, diminuire i posti disponibili per ogni
ateneo. Questa linea di comportamento non porterebbe però alcun giovamento in
quanto la sospensione dei corsi di laurea non risolverebbe in alcun modo la
questione della stasi occupazionale ma getterebbe le basi per problemi ben
maggiori nel medio e lungo periodo. Perché?
Purtroppo nel nostro Paese ,
come tutti sappiamo, non è esiste la facoltà di Infermieristica: il suddetto
corso di laurea è afferente alla facoltà di Medicina e Chirurgia, così come
anche tutti i livelli di formazione post base quali corsi di perfezionamento,
master di vario livello, lauree magistrali, dottorati di ricerca. E tutti noi
sappiamo anche quanto è stato lungo il processo legislativo che ha fatto si che
il Corso di Infermieristica divenisse un Corso di Laurea, contrariamente ai
paesi Anglosassoni, dove la facoltà di Nursing è attiva da decenni e addestra
professionisti con capacità tecniche e pratiche notevolmente più approfondite
rispetto a quelle che ci vengono fornite nelle nostre Università. Conseguenza
di tutto ciò è una sorta di “sudditanza accademica” in cui la nostra
professione si trova, fin dalla fase formativa, rispetto a quella medica. E
questo si ripercuote ancora troppo spesso anche negli ambienti di lavoro. Basti
pensare che in varie Università, la direzione delle Lauree Magistrali in
Scienze Infermieristiche ed Ostetriche è affidata a Medici (vedi UNIMI).
Diminuire i posti disponibili e il numero di facoltà significherebbe creare
problemi notevoli, fra i quali:
· il mantenimento dei docenti e dei Ricercatori
in Scienze infermieristiche, che diverrebbero in esubero
· diminuzione della forza contrattuale della professione
in ambito accademico;
· debole sviluppo della disciplina
infermieristica.
Quindi, gran parte di ciò
che è stato ottenuto in ambito formativo in decenni di storia della nostra
professione nel nostro paese, andrebbe perduto. Una situazione complicata, resa
ancor più intricata da una recente Riforma universitaria che, visto il numero
esorbitante di corsi attualmente esistenti nei vari atenei del nostro paese, ha
vietato l’apertura di nuove Facoltà.
La realtà dei fatti dice comunque che l’infermiere è una figura professionale
infinitamente importante, ma attualmente sempre più carente all’interno del
SSN. Il compito della Rappresentanza professionale deve essere costantemente quello
di rendere evidente che la carenza e mancanza di infermieri ha una oggettiva
ricaduta su:
· mantenimento dei LEA (Livelli Essenziali di
Assistenza);
· attuabilità del potenziamento delle cure
primarie e dell’assistenza infermieristica domiciliare (tanto paventata in
varie e recenti campagne elettorali);
·
attivazione delle strutture sanitarie e socio
sanitarie territoriali intermedie;
· fattibilità della presa in carico di
cittadini anziani, con patologie cronico - degenerative o fragili che
necessitano di continuità assistenziale lungo l’intero arco della vita.
LA QUESTIONE MEDICA
Ma non sono solamente questi
i punti dolenti da affrontare e risolvere. Al centro del dibattito vi è, per
gli infermieri,anche la “questione medica”. Prima che fosse presentato il
disegno di legge riguardante la creazione degli ordini professionali, era già
presente la volontà di creare gli ordini professionali. Fattore che ha creato
più di una voce di dissenso e protesta nella classe medica in quanto convinta
che un’ eventuale trasformazione degli attuali collegi in ordini porterebbe, in
misura sempre maggiore, un trasferimento di competenze mediche verso altre
professioni.
Anche in questo caso, l’impegno
della compagine professionale tutta, su questa “questione”, deve essere forte e
corale”. Deve essere attivato e mantenuto il confronto, l’analisi e il
dibattito per quanto attiene il costrutto disciplinare e la sfera di
decisionalità, vista la sempre crescente evoluzione delle competenze e
dell’operatività infermieristica nei campi clinico, assistenziale,
organizzativo, gestionale e formativo. Ma soprattutto, è necessario un cambio di
marcia: ci dicano in che cosa consiste l’atto medico, ci dicano sulla base di
quali elementi giuridici, disciplinari, formativi, si sostengono alcune
posizioni professionali che si riverberano nella stampa di settore e minano i
rapporti e le relazioni professionali.
La definizione di atto
medico, emanata al vertice di Bruxelles nel 2005 è la seguente: "L'atto
medico ricomprende tutte le attività professionali, ad esempio di carattere
scientifico, di insegnamento, di formazione, educative, organizzative, cliniche
e di tecnologia medica, svolte al fine di promuovere la salute, prevenire le
malattie, effettuare diagnosi e prescrivere cure terapeutiche o riabilitative
nei confronti di pazienti, individui, gruppi o comunità, nel quadro delle norme
etiche e deontologiche. L'atto medico è una responsabilità del medico abilitato
e deve essere eseguito dal medico o sotto la sua diretta supervisione e/o
prescrizione". Tutto ciò non si discosta di molto da quanto detto nelle
leggi 739 del 1994, nella 42 del 1999 e nella 251 del 2000
Si può definire, quindi
conclusa da diversi anni, ormai, la stagione basata sulla mitologia della centralità
e primazia della professione medica su tutte le altre professioni, e del
paternalismo medico, ed è evidente che la riflessione su tale questione
riverbera anche sul tasso di occupazione degli uni piuttosto che degli altri,
sulla ridefinizione dei paradigmi relazionali tra le professioni e tra le
professioni e i cittadini e sul ridisegno dello status sociale ed
economico/contrattuale.
Voi cosa ne pensate?